Nell’area vesuviana, nel comune di Somma Vesuviana, nella località Starza della Regina, si trova una villa romana, di notevoli dimensioni.
La costruzione, con i suoi misteri sepolti da secoli, si è presentata davanti a noi come una pagina viva di una storia ancora da completare. Ogni pietra, ogni colonna, sembra voler raccontare storie di un passato lontano, produttivo e vivo.
La storia della cosiddetta “Villa Augustea” inizia negli anni ’30 del secolo scorso quando, in seguito ad alcuni lavori agricoli, furono fatti importanti ritrovamenti. Durante il primo scavo archeologico, effettuato su un’area di 30 metri, furono riportati alla luce una parete, la parte di un porticato, una colonna e frammenti di una scultura in marmo, fotografati ed interpretati come pertinenti ad una scultura eroica.
Le domande di noi ragazzi di fronte alla monumentalità del complesso e ai primi racconti hanno iniziato a sorgere spontaneamente: perché “cosiddetta Augustea”? Chi era il proprietario di questa villa? A quale epoca risale?
Il prof. De Simone ci ha raccontato che, dopo i primi scavi, si era ipotizzato che si trattasse di un edificio romano, distrutto dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., e che i frammenti di statua rinvenuti potessero riferirsi a quella di Augusto perché, stando alle testimonianze di Tacito e di Svetonio, il nobile discendente della famiglia degli Ottavi – i cui possedimenti si trovavano ad Ottaviano, cittadina non molto distante da Somma – doveva essere morto nei pressi di Nola.
L'esaltazione dell'Impero di Roma durante l'Italia fascista trasformò in certezza l'ipotesi e la villa di Starza della Regina venne considerata il luogo dove era morto Ottaviano Augusto, fondatore dell'impero.
I lavori durarono ancora un paio di anni e più volte si chiesero nuovi interventi per ampliare lo scavo ma, poiché questi non arrivarono, si decise di interrare nuovamente tutto. Fortunatamente, fu posto un vincolo di non costruzione per salvaguardare la zona.
Tutto tacque fino al 2002, anno dell’inizio della campagna di scavo da parte della Missione Archeologica dell’Università di Tokyo. Gli studenti giapponesi, inizialmente interessati a Pompei, grazie al Professor Antonio De Simone, docente dell’Università “Suor Orsola Benincasa”, cambiarono rotta e accettarono la proposta di riprendere gli scavi proprio dal punto esatto in cui si era partiti circa 70 anni prima.
Il primo dato importante che venne alla luce, insieme ai reperti, è che la villa, a pianta esagonale, fu seppellita dall’eruzione del 472 d.C., la cosiddetta “eruzione di Pollena” e ben nota anche nelle fonti letterarie per il terrore suscitato dalle ceneri trasportate fino a Costantinopoli dove ogni anno il 6 novembre ne celebravano il ricordo.
La villa, comunque, poco prima dell’eruzione del 472 d.C. era già stata abbandonata e spogliata di tutto. L’edificio era quindi stato adibito a magazzino, come testimoniano un forno, mai usato, una macina molto usurata e un soppalco utilizzato per deporvi le derrate alimentari Dagli scavi sono emerse, inoltre, due statue, una statua femminile e la statua di Dioniso, rinvenuta in frammenti sul pavimento. Noi abbiamo avuto la possibilità di ammirare nel sito le copie delle due statue, quelle originali si trovano, invece, al Museo Archeologico di Nola, nella sezione dedicata a Somma Vesuviana.
La statua femminile a cui è stato dato il nome di “peplofora” (donna con il peplo), non porta attributi che la identificano e, poiché la sua veste presenta i colori del lilla e del viola, potrebbe essere la rappresentazione dell’autunno. La statua di Dioniso, giovane dio recante in braccio un cucciolo di pantera secondo un’insolita iconografia, è realizzata in marmo bianco di Paros, con l’assemblaggio di diverse parti lavorate separatamente. La testa, compreso il collo, è lavorata a parte ed è inserita ad incasso sulle spalle.
Le absidi, che si trovano dietro la statua di Dioniso, rappresentano ulteriori ambienti abitativi della villa e contengono ancora le decorazioni originarie. La più grande presenta un corteo di tritoni, figure mitologiche metà uomini e metà pesci, e Nereidi, ovvero donne che cavalcano delfini. Accanto a una di queste è raffigurato un bambino, che si può sempre identificare con Dioniso poiché, secondo uno dei miti riconducibili alla nascita del dio, questi fu affidato a una zia che era una Nereide. La figura di Dioniso è, inoltre, legata al secondo utilizzo della villa, ovvero quello di luogo dedito alla produzione del vino, una caratteristica comune a tante ville vesuviane, come Villa Regina a Boscoreale o la Villa Romana di Ponticelli. Al di là del porticato, infatti, proprio vicino alle absidi si trova la cella vinaria con dei “dolia”, contenitori di terracotta dalla capienza di circa 1000-2000 litri, utilizzati per conservare olio o vino. I “dolia” sono interrati e quello che si vede è solo la bocca del recipiente, questo per favorire la conservazione al fresco del vino. Poiché i “dolia” ritrovati sono più di trenta, si presume che la produzione vinicola della villa non fosse solo riservata all’uso domestico ma che ci fosse una vera e propria attività commerciale, anche se poco prima dell’eruzione del 472 d.C. l’edificio era già stato abbandonato, fatta eccezione per la statua di Dioniso che, probabilmente, era stata lasciata lì come una sorta di protezione.
Il portale, che è l’elemento più suggestivo della villa, si ritenne, in un primo momento, fosse l’ingresso dell’edificio. La decorazione, che interessa solo un lato, è perfettamente conservata: si possono ben distinguere le pigne d’uva, il flauto di Pan, il cesto di serpenti e tutta una simbologia riconducibile sempre a Dioniso. Il portale, però, non conduceva a nessun ambiente abitativo: attraversandolo, infatti, si arriva su una strada fatta di basalto, molto usurata, che metteva in comunicazione i diversi ambienti. Il calco della zona antistante la strada, nel momento del ritrovamento, ha dato un terreno arato che, una volta tolto, ha lasciato delle buche. Alcuni ritengono che queste buche ospitassero la vite e che, quindi, il portale fosse l’ingresso al vigneto; altri, invece, sostengono che le buche venissero utilizzate per la concia delle pelli.
Al di là delle absidi è stato ritrovato il muro perimetrale di una cisterna del I secolo d.C., che ha quindi una datazione diversa da quella della villa, stimata intorno al III-IV secolo d.C. Alcuni ritengono che questa cisterna avesse la funzione di raccogliere l’acqua piovana; altri, invece, sostengono che alimentasse l’Acquedotto Augusteo che partiva da Serino e arrivava fino a Capo Miseno dove si trovava la flotta dell’Impero Romano. Poiché l’acquedotto si sviluppava in gallerie sotterranee, questo dislivello faceva perdere acqua e, da qui, la necessità di creare queste cisterne.
Ci sono, dunque, tracce del I secolo d.C. Quali altri misteri nasconde questa villa?
Il nostro viaggio alla scoperta della Villa cosiddetta di Augusto è stata un’esperienza che ci ha arricchito culturalmente e ci ha fatto sentire parte di qualcosa di più grande. Restano ancora tante domande senza risposte. Da qui la necessità di continuare le ricerche perché ogni nuovo frammento è un pezzo di un puzzle più grande, un indizio che ci avvicina alla comprensione della vita e della cultura degli abitanti di questo luogo e di questo territorio. E chissà, forse un giorno sarà proprio uno di noi a dare un contributo al racconto di questa straordinaria villa.